Politica

Remo (Sernagiotto), per remare lontano

di Gianluca Versace

Vi parlerò di un amico, un fratello incontrato nel corso del mio cammino; un fratello ed un amico perduto troppo presto: Remo Sernagiotto. Un uomo buono, volenteroso e generoso. Con cui ho lavorato alacremente a convegni, incontri pubblici, iniziative politiche e mille trasmissioni televisive fatta insieme.
Una persona creativa e instancabile, un padre di famiglia che aveva sempre creduto in me. Lo avevo ricambiato con l’impegno, il rispetto e l’affetto che si debbono a chi è onesto e che si merita, con gli interessi, chi è autentico. E lui lo è sempre stato. Autentico e onesto.

Remo se n’è andato domenica 29 novembre 2020. Era ancora troppo giovane, perché aveva solo 65 anni. E tante cose ancora da fare, davanti a sé.
Ma il libro del suo destino, nella sua imprevedibilità a volte crudele, aveva altri programmi. E li ha attuati, indifferente a tutto e tutti.
Politico e imprenditore, Sernagiotto era stato colto da un grave arresto cardiaco. Venendo ricoverato, in condizioni disperate, nell’Unità di terapia intensiva coronarica dell’ospedale Cà Foncello di Treviso.

Purtroppo troppo a lungo il cuore non aveva pompato sangue verso il cervello e l’ipossia aveva prodotto conseguenze irreparabili per il suo organismo. Così, le funzioni di organi vitali si sono progressivamente deteriorate. Fino all’epilogo, che ha lasciati attoniti, sgomenti.
Rimangono, per chi resti e gli abbia voluto bene, tra le pagine chiare e scure, domande inquietanti e angosciose: se i soccorsi chiamati dalla moglie Maurizia e dal figlio Gregorio fossero arrivati ancora prima? E se l’ambulanza avesse avuto un defibrillatore a bordo? Avrebbe potuto forse essergli di aiuto?

Remo non stava bene da un po’, raccontano i familiari che lamentava dei fastidiosi disturbi al cuore: così, una settimana prima del malore fatale, era andato in ospedale, a Montebelluna, per farsi visitare.
Ma i medici lo avevano rimandato a casa. La diagnosi, a quanto pare non avrebbe palesato alcun allarme serio. Insomma, la cura poteva essere domiciliare.

E se invece lo avessero ricoverato. Se avessero provveduto a controlli più accurati e ad analisi più precise e stringenti, a quel suo cuore che era stato già sottoposto, circa un anno prima, ad un intervento di routine per dei bypass. Se non ci fosse stata in atto anche la congiuntura dell’emergenza per il maledetto “carognavirus”, che pare aver fagocitato la nostra, pur eccellente, sanità pubblica veneta. Se...se...
A questo punto, non serve più chiederselo. Recriminazioni, rimorsi e dubbi laceranti lasciano alimentano soltanto altro dolore, in chi gli voleva molto bene e lo stimava. Tra cui me.

Sernagiotto era un combattente di natura e non si è arreso subito: ha lottato strenuamente per sei giorni, sospeso tra la vita e la morte, dopo l’arresto cardiaco devastante che lo aveva colto al mattino presto, a casa sua. Con i bollettini medici che, in uno stillicidio insopportabile, fornivano via via notizie di ulteriori, progressivi aggravamenti delle sue condizioni di salute.
La sua natura profonda ed incoercibile, credo fosse già contenuta e custodita nel nome di battesimo: Remus, dal latino, la radice etimologica riposa nel greco antico, vuol dire “che scorre”. Fratello di Romolo e ucciso da questi perché aveva commesso il gesto d’imprudenza intollerabile di superare il solco sacro di Roma.

E veramente Remo scorreva, fluido e instancabile come un fiume di vitalità mai sopita, tra idee e progetti. Programmi e intenzioni. Sogni e bisogni. Senza temere mai conseguenze dall’inevitabile superare “il solco”, il confine tra ciò che è conosciuto e abituale e quello che, invece, richiede visione e perfino coraggio di azzardare il nuovo, il necessario cambiamento. Pensare che quel grande “fiume”, fresco di voglia di vivere, si sia improvvisamente arrestato, inaridendosi, mi fa pensare che da ora in avanti, saremo tutti più aridi.

Remo dunque era fiume che scorre, ma era anche roccia imponente ed era sfida fluente, era silenzio delle valli e suoni argentini della città, era concetto incarnato di vita e volontà di cavalcare il vento, che soffia impetuosamente dal desiderio di migliorare il mondo. Ognuno per l’oncia che riguarda la propria parte. Senza correre il rischio di fare da spettatori passivi della vita.

Remo era la bandiera che garrisce alla luce del sole ed era respiro infaticabile di un’atleta della tenacia, che compie in ogni giorno nuovo lo slalom tra gli ostacoli del “non si può fare” e contemplando, a volte come una necessità, anche l’azzardo impavido per conseguire il risultato. Ma non a ogni prezzo, intendiamoci. Bensì confidando vigorosamente nella forza delle sue gambe, per scalare la vetta rimasta finora inviolata. E regalandosi un breve sorriso dei suoi, tra le nuvole più alte, e poi tornare giù, per poter immaginare un’altra impresa. Attenzione: mai fine a se stessa. Sempre da condividere, con vecchi e nuovi compagni di cordata.

Il suo impegno, figlio di un’anima di una bellezza semplice e sopratutto autentica, forgiata nel lavoro umile e onesto sul territorio che lo esprimeva, era sempre coniugazione del singolo con lo spirito di squadra. In Remo, l’io non avrebbe mai potuto fare a meno del noi.
Remo Sernagiotto ci lascia un messaggio prezioso: quello di credere sempre nelle nostre sconfinate possibilità di esseri umani, quando non siamo soli, quando non abbassiamo le saracinesche del cuore e non ci rassegniamo alla immodificabilità dello status quo.

Arrivava da me, negli studi di Canale Italia, guidando la sua guizzante Mini. Diciamo che faceva parte integrante del suo dna uno spirito di indipendenza ed autonomia, anche quando – da assessore regionale – avrebbe avuto diritto all’auto blu con autista.

Persino la controversa vicenda della pistola, narrata clamorosamente dai media, in tempi di polemiche feroci sulla legittima difesa, non era stata ostentazione muscolare di aggressività guerrafondaia. Bensì era piuttosto rappresentazione lampante dello spirito adulto, liberale, laborioso e intraprendente di chi non si è mai aspettato la manna dal cielo (pubblico), ma si è sempre rimboccato le maniche, per fare da sé ciò che ciascuno avrebbe potuto e dovuto fare. Senza dipendere da nessuno. Senza indugi: non aspettare che il vento soffi dentro la tua vela, soffiaci dentro prima tu.

Con il tempo, lentamente, avevamo imparato a fidarci ed affidarci vicendevolmente l’uno nell’altro. Nelle piccole e grandi cose della vita.
L’estate, poi, ci ritrovavamo tra Caorle e Porto Santa Margherita, con altri amici come Bruno Rosselli, a parlare di politica e futuro: Remo era un vulcano festoso in perenne eruzione, sempre pieno di slanci e proposte. Andavamo in giro in bicicletta, sul magnifico litorale caorlotto: e Remo si fermava a salutare tutti e per ciascuno aveva una parola affettuosa, un invito a ritrovarsi presto, magari davanti ad una pizza o ad un calice di prosecco.

A volte, mi fermavo a passare la notte all’hotel San Giorgio, e siccome la mattina dopo, magari, ero di turno in conduzione a “Notizie Oggi”, Remo si presentava puntuale alle 3 del mattino nella hall dell’albergo e mi faceva buttare giù dal letto dal portiere di notte. Scendevo assonnato e me lo ritrovavo davanti, molto più sveglio e pimpante di me, con cornetti e caffè fumante su un vassoio, prima di iniziare il viaggio andata e ritorno verso Padova.

Le ore trascorse in macchina, quando non era ancora l’alba, le impiegavamo in lunghe conversazioni, su temi ed argomenti anche molto personali. Era come una vicendevole confessione laica. Esplorandoci a cuore aperto, diretta e senza contorti giri di parole. Rispettando l’importanza del dubbio, oltre che chiarendoci reciprocamente le poche certezze che avevamo maturato assieme. Mi fidavo di lui e lui credo si fidasse di me. E ci volevamo bene, ci rispettavamo, nella nostra diversità: io un giornalista portato all’astrazione a volte indeterminata, lui un uomo del fare e del realizzare.

Ne ho un ricordo vivido e tenero, di quelle chiacchierate pacate e a fari accesi, quel legame confidenziale, con la convinzione di un tempo utile, di momenti preziosi perché vissuti in sintonia umana, intellettuale e culturale con un amico sincero e leale, oltre che naturalmente di valore. Qualcuno a cui potessi raccontare e confidare aspetti delicati e sensibili della mia vita, sicuro che sarebbero stati al sicuro. Sì, con Remo ero in buone mani.
Ecco, le mani.

Come dicevo, Remo Sernagiotto aveva la predisposizione istintiva al lavoro quotidiano, verso cui nutriva un rispetto sacro. Intendo il lavoro pratico, quello che si fa metodicamente e con la forza delle mani. E che ricevi come un testimone tenace e rassicurante da altre mani, quelle di chi ci ha preceduti. Il più alto valore educativo deriva dall’esempio.

Dopo che entrammo in confidenza, mi disse: “Vieni da me che ti do due treni di gomme per l’auto. Uno di pneumatici lisci e uno per l’inverno. E non accetto un no”. Quindi lo feci, così per anni mi sono ritrovato alla “Sernagiotto Gomme” sulla strada Feltrina, ad ogni cambio gomme stagionale, con altri amici, tra cui per esempio Maurizio Sacconi o Luca Badoer collaudatore della Ferrari, travolti dalla medesima generosità di Remo. Che parlava con noi, mentre i suoi meccanici ci facevano la convergenza e intanto, contemporaneamente, rispondeva a 45 telefonate al minuto, perennemente attaccato al filo penzolante dell’auricolare del suo telefonino.

Lui aveva veramente a cuore il coraggio, la passione, il talento, che si augurava specialmente nei giovani: e Remo, come un rabdomante, riusciva ad intuire ed intravvedere queste qualità negli altri, soprattutto in controluce, quando l’ombra dell’innato pudore, della riservatezza e persino della timidezza offuscano in parte la visibilità di ciò che una persona può essere per gli altri, oltre che per se stessa.

L’addio gli è stato dato in un Duomo di Montebelluna gremito di gente, venerdì 4 dicembre, una giornata fredda e piovosa. E remo è stato ricordato con parole toccanti dall’adorata moglie Maurizia: “È stato per me facile amarlo e per voi volergli bene. Era una persona generosa. Ricordatelo con quel sorriso che aveva sempre sul volto”. Dalla figlia Gloria: “Eri il mio rifugio, la mia guida, solo tu sapevi rassicurarmi e consigliarmi. Non sapevi dire no a nessuno, sapendo perdonare l’imperdonabile. Dicevi che è sciocco sprecare attimi di vita per serbare rancore. Eri così innamorato del tuo piccolino che in questi giorni continua a chiedere di te. Tornerò a essere felice, lo devo soprattutto a te». E dal figlio Gregorio, il primo a prestargli soccorso: “Mi dicesti un giorno che un posto lasciato vuoto da noi sarà preso da altri, ma il tuo posto nel nostro cuore non potrà mai prenderlo nessuno».

Dicevo, l’amico Remo Sernagiotto è stato un noto imprenditore nel settore dei pneumatici. La politica è stata per lui una passione bruciante, pervasiva, irrinunciabile. Che Remo aveva coltivato da giovane, prima militando nella Dc. Poi con la nascente Forza Italia, di cui è stato un motore formidabile. Ed infine approdando in Fratelli d’Italia. L’impegno politico lo ha portato a mettere assieme, pazientemente e mai bruciando le tappe, una lunga gavetta. A partire dal consiglio comunale di Montebelluna, fino a raggiungere prima il Consiglio regionale del Veneto, da consigliere ed assessore al sociale, fino ad arrivare agli scranni del Parlamento europeo. 
Nel 2014 Remo Sernagiotto è eletto al Parlamento europeo con ben 21.889 preferenze e rinuncia all’incarico regionale.
Ma Remo non aveva una “carriera”, come possiamo intenderla noi. Aveva amore per le cose che faceva e soprattutto per il prossimo che incontrava lungo la sua strada. Adesso che prendo consapevolezza che non mi squillerà più il cellulare, sentendo la sua voce investirmi di febbrile entusiasmo e indomita positività, mi pervade la malinconia e tanti ricordi mi si affollano in mente. Ricordo, per esempio, la gioia, costruita un mattoncino alla volta, per la creazione della magnifica Country House di Crocetta del Montello, dove presentai il mio romanzo “Il Domatore del Fuoco”, con lui accanto.

Crocetta, dunque. Un luogo accessibile ed aperto di relazioni, di incontro, di confronto, di riposo e di immersione nella bellissima natura attorno. Un posto reso possibile ancora una volta dalla sua lungimirante intuizione: unire, non dividere; armonizzare la voglia di partecipazione di ciascuno, per la propria parte, in una sorta di azionariato popolare. Una cooperativa basata sugli ideali e la concretezza, che quegli ideali rende spendibili e non fumosi, astratti, a volte ipocriti voli pindarici. Insomma, rendere la speranza un progetto pratico, magari rivedibile, correggibile con sano realismo in corso d’opera, a seconda dei materiali disponibili: ecco, di questa profonda convinzione di Remo Sernagiotto, Crocetta del Montello è il simbolo illuminato. Ne era orgoglioso.
E poi Cortina d’Ampezzo: la sua “creatura” forse più illustre.
Ci lavorai a lungo con lui e Leonardo Padrin, fin dagli albori. Dopo un prologo a San Martino di Castrozza, nel 2000 organizzammo la prima di una lunga serie di fortunate edizioni.

All’inizio, posso dire che ci credeva ciecamente soltanto Remo e sfidava le nostre prudenziali cautele. Infine, salirono tutti sul carro del vincitore. Anche quelli che, per gelosia politica e personalistica, avevano tentato maldestramente di affossare la tre giorni sulla Perla delle Dolomiti contrapponendole altri convegni “gemelli”. Come quello di Jesolo. Vennero tutti a Canossa e ricordo quanto ne ridemmo, lui ed io. Una macchina complessa, con l’infaticabile Barbara Trentin a tirare le fila, i figli di Remo giovanissimi ma già impegnati a dare una mano. Centinaia di persone da ospitare e sfamare, negli alberghi ampezzani. Decine di inviati di stampa e tv. Ospiti illustri. Chiesi all’amico Mario Chiavalin di mettere a disposizione i suoi potenti mezzi per fare la diretta di tutti gli incontri, nella tensostruttura del palazzetto che sorgeva nel grande parcheggio di Cortina.

Fu un successo incredibile: basato su una costante, continua riflessione tra Remo e me, ovvero che il potere per il potere, non basta e non dura, se non si sorregge sulle analisi, il ragionamento, le idee ed i contenuti, elaborati nel confronto anche tra anime diverse. Insomma, senza trasfusioni di vita vera.
Ci voleva un pensatoio, un luogo frizzantino e indomabile, insomma una sorta di “incubatrice” di politica viva, in cui ci si sentisse liberi di esprimere le proprie opinioni, anche dissonanti dalla linea ufficiale del partito e di confrontarle apertamente con gli altri. Un luogo di parola e di ascolto. Di crescita comune, come poi avvenne: naturalmente, il meeting settembrino di Cortina d’Ampezzo divenne un punto di riferimento nel dibattito politico nazionale.
Così, chiesi ed ottenni di non creare una sorta di sinedrio, il consueto recinto asfittico, all’insegna dello sterile e autoreferenziale unanimismo. Del quanto siamo belli, bravi e infallibili. Con un coté di ruffianerie e cortigiani, dalla lingua usurata per un improprio ed eccessivo utilizzo.

Remo mise da parte le legittime perplessità: “Va bene, Gianluca. Ti credo. Facciamo come dici tu. Se va male, pazienza. Lasciamoli criticare”. E fu così che potei offrire una mattinata memorabile che condussi sul palco, in un palazzetto letteralmente sold out, con il mio caro amico Luigi De Marchi, fondatore della psicopolitica.

Infine, la parte più sofferente e oscura di questa storia. Che sta forse all’origine della fine prematura di Remo.
Il mio riferimento va alla vicenda del processo per Cà della Robinia. E allo sciacallaggio infame che è stato messo in atto ai danni della onorabilità di Sernagiotto. Con accuse francamente indecenti.

Le indagini della Procura di Treviso scattarono nel 2016, quando Ca’ della Robinia fallì. In quel crac, gli inquirenti ravvisarono una serie di bancarotte fraudolente. La cui genesi svelò una presunta truffa. Di quando si era arrivati alla convenzione tra la società “Ca’ della Robinia cooperativa sociale” e la direzione dei Servizi sociali della Regione. Assessore era Sernagiotto.

Ballava una presunta mazzetta da 63.680 euro: «Sono sempre stato un uomo delle istituzioni – ricordo che aveva commentato Sernagiotto, al momento del rinvio a giudizio – e ora a processo potrò dimostrare la mia innocenza e soprattutto di non aver mai tradito le mie responsabilità di amministratore pubblico». Al processo, Remo era stato difeso dall’amico avvocato Fabio Crea, che ha seguito la famiglia Sernagiotto anche nei frangenti più drammatici.
La recente sentenza della Corte dei Conti ha assolto di fatto Remo Sernagiotto. Condannando invece i titolari di Ca’ Della Robinia a restituire i tre milioni di finanziamento della Regione per far diventare l’ex Disco Palace una comunità per persone diversamente abili. E trasformata invece in una birreria.
Secondo l’avvocato Crea, questa è la prova che la parte politica non sapeva nulla dell’imbroglio.

E che ne sarà adesso del procedimento penale? Lo chiedo a Fabio Crea: “Auspichiamo di poter continuare ad andare avanti nel processo penale, per dimostrare fino in fondo la sua innocenza”. Il presidente del Tribunale di Treviso si è detto favorevole. Così, a marzo riprenderanno le udienze.
Sono d’accordo di non fermarsi, nonostante la scomparsa fisica di Senagiotto. Anzi, credo che la difesa attiva della memoria di Remo dipenda da noi, che gli siamo stati vicini: Sernagiotto era innocente. E con quella storiaccia non c’entrava niente.

Ma ciascuno di noi è ciò che appare durante una burrasca, nel bene e nel male, nella destrezza e nell’incapacità: ci si conosce nelle difficoltà. E’ la crisi, a portare a un opportuno tumulto interiore, che ci obbliga a un esame. Che costringe ognuno a guardarsi allo specchio e a dirsi la verità, invece di raccontarsela.
E questo deve avere compiuto Remo: mi immagino che, al suo iniziale senso di smarrimento, si sia, nel tempo, sostituito qualcosa di diverso: la paura. Paura non per la propria sorte. Ma per i familiari. Le persone che avevano creduto in lui. E infine timore per un’umanità miope alle proprie responsabilità che, nel corso della storia, non è ancora riuscita a interrompere un circolo vizioso di antichi schemi, paradigmi ricorrenti, ciechi automatismi. Mentre la Banalità, regina indiscussa dei media e della tecnologia digitale, sta appiattendo tutto, tutto omologa, tutto priva di sapore, senso, memoria.

Eppure, le persone che più ammiriamo, cioè le voci fuori dal coro, in ogni ambito, hanno in comune un vissuto di dolore. Anche per l’amico Remo era stato così: come se questo dolore sia in realtà un regalo difficile da ricevere e una preziosa risorsa evolutiva. E insomma, la “sicurezza” che bramiamo tanto, non sia la miglior palestra dove sviluppare il proprio pieno potenziale umano.
Remo Sernagiotto credeva in un mondo di donne e uomini che, con umiltà e coraggio, guardando in faccia la realtà, si aprono a un più che necessario cambiamento. Personale e collettivo.
Perché è la Verità, non il “raccontarsela”, la pietra angolare di ogni presa di coscienza, di ogni assunzione di responsabilità: il solido terreno su cui costruire un futuro che abbia un senso.

Io credo che Remo fosse uno straordinario “Cacciatore di Orizzonti”. Un uomo, vulnerabile e sincero, forte e sognatore, che – per dirla con Romano Guardini, un fine pensatore del secolo che ci ha preceduto – aveva imparato a “tenere se stesso nelle proprie mani”. Mettendosi al servizio di autonome personalità, in difficile ed a volte contraddittoria costruzione, affinché sia possibile ritrovare nei nostri cuori e nell’anima ciò che non abbiamo ancora scoperto. Recuperando così la più genuina carica antagonista verso l’attuale, sonnolenta organizzazione della vita. E di una politica meschina e squallida.

Il grande Raffaello Sanzio diceva che “l’ottimo pittore dipinge non quel che la natura mostra di aver fatto. Ma ciò che non ha ancora fatto”: Remo Sernagiotto era capace di dipingere una nuova natura umana, perché la intravvedeva dove ancora non c’era.
Un racconto eschimese, “rivisitato” con sensibilità e poesia da Simone Weil, spiega l’origine della luce. E ci fa capire quanto sia potente e “rivoluzionaria” la trasparente e mite volontà buona: “Il corvo che nella notte eterna non poteva trovare cibo, desiderò la luce e la terra si illuminò. Se c’è un vero desiderio, se l’oggetto del desiderio è veramente luce, il desiderio della luce produce la luce”. Essere cacciatori di orizzonti e di luce era la missione di Remo Sernagiotto.
Albert Camus, un secolo fa, spiegava: “Quando si sostituisce alla parola dignità la parola successo, è la crisi”. Questa è la “peste”. La mancanza di senso del decoro e di dignità.
Invece, Remo era composto di dignità, visione e umanità.
Per remare lontano, sempre con noi.
Lo farà ancora, magari ancora più lontano di questa lontananza.

Gianluca Versace
Giornalista e scrittore

Articolo che uscirà la prossima settimana nell'edizione cartacea del periodico Il Piave

Ultimo aggiornamento: 18/04/2024 22:08