Cultura

L’Aiace di Sofocle: l’immortalità della tragedia

di Georgia Schiavon

Luca Micheletti (Aiace)
©foto Centaro
«Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire», sentenzia Aiace nell’omonima tragedia di Sofocle, ribadendo un’identità, quella tra una vita e una morte che reciprocamente si avvalorano, che costituisce l’ideale di eroismo omerico. E tuttavia il riferimento di Aiace, oramai, non è alla morte che suggella l’atto eroico, il combattimento in battaglia, bensì ad una morte che preservi l’onore da un’onta che, diversamente, macchierebbe indelebilmente il resto della sua vita.
 
Nel suo
Aiace, che aprirà quest’anno, il 10 maggio, la stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, al teatro greco di Siracusa, Sofocle mette in scena un eroe antico e, tuttavia, moderno; un individuo che si staglia – nella sua distanza – sullo sfondo di un destino tragico: cioè contraddittorio, ma inevitabile, se nell’impossibilità di una conciliazione risiede, come la sintetizzò Goethe, l’essenza della tragedia.

Secondo Efimia Karakantza, in questa sua tragedia – per i critici la prima, composta intorno al 450 a. C. – Sofocle banchetta così abbondantemente alla tavola di Omero (come diceva di sé Eschilo, l’altro grande tragediografo antico) da plasmare, in Aiace, il proprio Achille, attribuendogli le doti del più forte, il più coraggioso, dei Greci, supremo modello di virtù militare. Le analogie tra i due eroi pervadono effettivamente il racconto omerico della guerra di Troia. Nell’
Iliade, Aiace, re di Salamina, è secondo solo ad Achille tra i Greci che combattono a Troia. Achille ed Aiace presidiano, uno da una parte, uno dall’altra, le estremità dell’accampamento greco, dove il pericolo di un attacco troiano è più incombente. Aiace è in campo, «baluardo dei Greci», mentre Achille, adirato per l’affronto subito da Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, se ne sta ritirato nelle proprie tende con i suoi uomini, i Mirmidoni, aspettando la rovina dell’esercito greco. È Aiace – prima di Achille, il quale ucciderà poi il principe troiano – ad affrontare Ettore in un duello che si concluderà con una tregua ed uno scambio di armi: armi che, come sovente in questi casi, si riveleranno letali, compiendo infine, per altre vie, su chi le ha ricevute in dono, il nefasto compito per il quale sono state sfoderate ed indossate. Nella tragedia di Sofocle, come la cintura ricevuta da Aiace per Ettore (con essa Achille ne legherà il corpo al carro col quale lo trascinerà fino alla morte), così la spada di Ettore sarà fatale per Aiace.

Un eroismo, quello di Aiace, ereditato dal padre, Telamone, che aveva partecipato alla precedente guerra contro Troia, riportandone, oltre che l’onore, il premio più prestigioso: Esione, la figlia del re troiano Laomedonte, divenuta poi sua sposa e madre di Teucro, il fratellastro di Aiace. E tuttavia la tragedia sofoclea pone tra l’indole di Aiace e quella del padre un divario che si rivela fondamentale. Come ricorderà Calcante, al momento di partire per Troia, accomiatandosi dal padre che gli raccomandava di affidarsi, per la vittoria, all’aiuto degli dèi, Aiace così rispose: «Padre, con il favore degli dèi anche chi è nulla può riportare vittoria; io ho fiducia di ottenere la gloria pur senza di essi». Una convinzione, una fiducia nelle proprie umane forze, ribadita al cospetto della stessa Atena, sul campo di battaglia: «Signora, sta’ vicina agli altri Argivi: dove siamo noi, la linea di battaglia non s’infrangerà mai». Aiace sconterà il suo affronto: nella tragedia greca la
hybris, la superbia, è una colpa che gli dèi non perdonano agli esseri umani.

L’
Aiace si apre (in modo peraltro originale rispetto alla tradizione) in medias res. Accecato da Atena – intervenuta per salvare l’esercito greco ed Odisseo, suo protetto – Aiace ha catturato e sterminato una mandria di animali, scambiandoli, nella sua follia, per i capi degli Achei. Questi infatti, forse per una macchinazione del loro comandante Agamennone e del fratello Menelao (i due Atridi), hanno assegnato le armi di Achille, colpito mortalmente al piede da Paride, ad Odisseo, quando invece, come rivendica Aiace, Achille medesimo, se fosse stato in vita, solamente a lui le avrebbe concesse. Lo sfogo della sua ira è al culmine del suo compimento: egli, nella sua tenda, è intento a flagellare un ariete, legato a un palo, credendolo Odisseo, il suo acerrimo nemico, che lo ha privato del dono che doveva essere il suo.

Aiace, eroe impeccabile nell’
Iliade, nella tragedia viene colpito da un destino che non dipende da lui: prima dall’ingiustizia umana; poi dall’ostilità divina. È il “giudizio delle armi”, decretato dai capi greci (secondo la tradizione che Sofocle, ad accentuare il valore dell’eroe, accoglie rispetto all’altra, che attribuisce invece la preferenza di Odisseo a delle ragazze o a dei prigionieri troiani), a scatenare l’ira di Aiace. Ed è l’intervento di Atena ad impedire la sua giusta vendetta.

Uscito dall’annebbiamento, Aiace si dispera. Il recupero della ragione coincide con la presa di coscienza dell’inevitabilità di un destino che era già scritto finanche nel suo nome, il cui significato, prima solo vagamente intuito, acquista ora piena chiarezza: «Aiai! Chi mai avrebbe pensato che il mio nome fosse così consonante alle mie sciagure? Ora posso ben gridare due o tre volte “aiai”: tali sono i mali in cui mi trovo». Aiace non è pentito della gravità dell’impresa – la strage dei capi del proprio esercito – che, a mente lucida, aveva architettato: è il suo fallimento, causato dall’accecamento divino, che egli non riesce ad accettare, poiché lo ha reso per sempre il loro scherno.

«Ed ora che devo fare?»: è il principio di un’indagine interiore che precipiterà l’eroe verso l’unico atto possibile. Andarsene immediatamente da Troia, rientrare in patria, ma senza onore, nella casa di un padre che, invece, da quella guerra aveva fatto ritorno gloriosamente. Oppure tentare la dimostrazione estrema, raggiungere, da solo, le mura di Troia e morire, valorosamente, per mano nemica, dando però così soddisfazione agli Atridi. Nessuna delle due soluzioni è percorribile; ciascuna porta con sé la contraddizione. Quella che egli prospetta, nei momenti subito successivi al suo rinsavimento dalla follia che lo ha condotto a fare strage di una mandria indifesa – la scelta, esclusiva, senza mediazioni, tra una buona vita o una buona morte – è l’affermazione, oramai, di un eroismo negativo: solo la morte può sottrarlo alla contraddizione, può preservare, negandola al destino, negandola al mondo, la sua natura, la sua identità: cioè il suo onore.

Dopo avere riacquistato il senno ed avere realizzato quanto commesso, per la prima volta nella sua vita, come racconta l’amata sposa, Tecmessa, Aiace piange. La conoscenza di sé passa attraverso il dolore, che porta Aiace ad un ripiegamento su se stesso. Il dolore, inizialmente gridato, condiviso, poi è taciuto, quasi custodito, preservato dalle incomprensioni e dalle interferenze esterne. I critici rilevano il carattere monologico dei discorsi di Aiace con Tecmessa e con i marinai di Salamina, i suoi fedeli uomini, nei quali il dialogo non è un confronto che porta ad una sintesi, ma quasi la giustapposizione di due linee che procedono parallele, incomunicanti, fino all’epilogo, ormai deciso, il suicidio di Aiace.

Quello che gli altri non vedono è la grandezza del dolore di Aiace. Neanche i marinai di Salamina, gli «amici» (come li chiama Aiace e come li invoca anche Tecmessa, nella speranza che un loro intervento possa farlo desistere dal suo proposito suicidario), capiscono: non ne condividono il valore. Scoperto l’accaduto, temono codardamente che l’ira degli Atridi nei confronti del loro re possa abbattersi anche su di loro. Nelle loro parole, essi dimostrano di considerare la vita al di sopra dell’onore, in modo esattamente antitetico a lui, e, nella superficialità del loro giudizio, gioiscono troppo precipitosamente per il suo presunto mutamento di volontà, lasciandosi facilmente convincere da quello che i critici hanno definito il suo “discorso ingannatore”, nel quale le sue vere intenzioni sono rivelate per enigmi, in modo che gli altri non possano intenderle e quindi ostacolarle. Solo Tecmessa – che pure lo aveva pregato di non lasciarla da sola, vedova, in balia della volontà dei capi greci, e di non lasciare senza un padre il loro figlioletto Eurisace – con il suo amore, alla fine, comprende: la morte è quello che Aiace davvero voleva.

L’eroe sofocleo – come Aiace così Antigone, Elettra, Edipo – è un individuo isolato dagli uomini e dagli dèi («io non sono più degno di volgere lo sguardo alla stirpe né degli dèi né degli uomini caduchi per ricevere aiuto», si strugge Aiace). Anche nella sorte avversa, con la medesima autonomia e forza che ne costituiscono la natura, egli può contare solo su se stesso. Il perseguimento della propria natura, della propria identità, vince su ogni vincolo religioso, sociale ed anche affettivo.

Aiace si allontana, raggiunge un luogo appartato, vicino al mare, e compie il suo gesto, gettandosi sulla spada, dono di Ettore, ben conficcata nella terra. Il suicidio di Aiace non è una morte epica, ma è, appunto, una morte tragica, l’esito di un eroismo violato. Ed è proprio nel farne un eroe più omerico dell’Aiace di Omero, secondo la tesi citata sopra, che Sofocle ne accentua la grandezza, la forza: la contraddizione tra la sua natura e la sua sorte fa risaltare la tragicità del suo destino.

La seconda parte della tragedia, che affronta il tema della sepoltura di Aiace, da molti criticata come pleonastica, per Karl Reinhardt è invece la rappresentazione di un’amoralità, quella degli Atridi, che fa spiccare, per contrasto, il mondo di Aiace, l’individualità del suo eroismo, l’universalità del suo valore. I due fratelli, che, senza l’intervento di Atena, ne sarebbero state le vittime, vorrebbero lasciare il suo cadavere insepolto, preda di cani ed uccelli, contro la legge divina, non scritta, che impone il rispetto dell’eroe anche dopo la morte, la sua degna sepoltura. A fare da mediatore tra Agamennone e Teucro, che intende celebrare il rito funebre per il fratello, interviene Odisseo, il suo peggior nemico. Lo stesso Odisseo, che pur sarebbe anch’egli morto per mano di Aiace, riconosce la necessità di onorare il suo eroismo, convincendone Agamennone.

Odisseo, che ottenne infine la vittoria della guerra di Troia non con la forza, ma con l’inganno (lo stratagemma del cavallo), rappresenta una sfera di valori – l’astuzia, la mediazione, il compromesso – opposti rispetto a quelli di Aiace, che al suo rivale, come racconta l’
Odissea, non rivolgerà la parola nemmeno nell’Ade. Nel dramma sofocleo egli ha tuttavia il compito di elevarne il ricordo, comprendendone la tragedia, che è la tragedia del destino, la tragedia della finitezza, che accomuna gli esseri umani: «nonostante mi sia nemico, ho pietà di quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se non fantasmi o vana ombra».

Il rito funebre consacra Aiace come eroe. Nell’antichità, il suo culto fu praticato in diverse città. L’eroe è un essere mortale, finito, la cui grandezza, tuttavia, lo ha reso immortale, pari agli dèi. L’eroismo di Aiace lo riscatta infine dalla tragedia, dalla finitezza. La sua memoria è consegnata all’eternità dalle parole della letteratura. Come disse ad Ettore Elena di Sparta, che della guerra di Troia fu il casus, «a noi Zeus diede un triste destino, ma per questo saremo cantati in futuro, dagli uomini che verranno».

Georgia Schiavon

Ultimo aggiornamento: 20/09/2024 20:23