Cultura

L’eroe di Sofocle: la tragedia del destino al teatro greco di Siracusa

di Georgia Schiavon

«Non a te sola tra i mortali apparve, figlia, il dolore che tu riveli più degli altri che sono in casa, i tuoi congiunti di stirpe e di sangue, Crisotemi e Ifianassa ancora in vita e lui nella sua giovinezza al riparo dai mali, felice, [...] Oreste»: se il dolore, come ricorda il coro delle donne di Micene ad Elettra nell’omonima tragedia di Sofocle, è una condizione comune all’esperienza umana, quello che tuttavia la distingue dagli altri – persino dai suoi fratelli, Crisotemi, Ifianassa, Oreste, figli dello stesso padre assassinato, Agamennone – è la sua relazione con esso. Elettra ci convive non soltanto in quanto lo subisce, non può dimenticare, ma in quanto lo sceglie, lo persegue; addirittura se ne consola, quasi se ne compiace.

Con
Elettra, che aprirà il 9 maggio la stagione del teatro greco di Siracusa, ed Edipo a Colono, che seguirà dal 10, l’Istituto Nazionale per il Dramma Antico celebra quest’anno il genio drammaturgico di Sofocle, già riconosciuto del resto dai suoi contemporanei: negli agoni tragici, oltre ad avere ottenuto il primato delle vittorie (le fonti ne riferiscono una ventina), le sue opere non scesero mai al di sotto del secondo posto.

La domanda sulla sofferenza è al centro della tragedia classica. Essa indaga il senso dell’esistenza, cerca di comprendere l’intreccio delle vicende umane nel corso delle generazioni, il loro inserimento in un contesto ulteriore, cosmico. Ciascuno dei tragediografi della triade consacrata dalla tradizione, Eschilo, Sofocle ed Euripide, tenta la sua risposta, rielaborando in modo originale il materiale mitologico. In Sofocle, la situazione tragica cui è condannato l’uomo spicca dalla rappresentazione di figure individuali, quali Elettra ed Edipo. Il coro dell’Edipo re ammoniva, infatti: «Abbiamo davanti a noi l’esempio del tuo destino, infelicissimo Edipo, e dunque non diremo felice nessuno degli uomini». Elettra, Edipo non hanno colpa. Figlia del re Agamennone, comandante dell’esercito greco nella guerra di Troia, Elettra è rimasta orfana del padre, ucciso al suo ritorno in patria dalla madre Clitennestra e dal suo amante Egisto. Da allora, ella si consuma nel lutto e nel pensiero della vendetta, divenuta oramai la ragione della sua vita. Anch’egli figlio di re, a seguito del responso dell’oracolo di Delfi, che gli predisse l’omicidio del padre e il rapporto incestuoso con la madre, Edipo ha lasciato Corinto per scongiurare la commissione di questi delitti. Percosso mortalmente un uomo ad un crocicchio per legittima difesa, approda infine a Tebe. Qui riesce a risolvere l’enigma della Sfinge, liberando da questa creatura mostruosa la città, di cui diviene re e sposa la regina, che era rimasta vedova. Ma scoprirà che l’uomo che aveva ucciso era proprio Laio, il re di Tebe, che, a conoscenza dello stesso vaticinio, appena Edipo nacque lo consegnò ad un pastore per farlo abbandonare sul monte Citerone; e che la regina, Giocasta, con la quale ha avuto dei figli, è sua madre.

Nell’Edipo re, prima di conoscere l’intollerabile verità del suo destino, Edipo si proclama – quasi consolandosene, egli, che non sa ancora quali siano i suoi genitori – «figlio della tyche»: del caso, della sorte. Dispensatrice di bene quanto di male, senza criterio, a prescindere da meriti o colpe, è essa che sembra reggere l’universo di Sofocle: «Generazioni di uomini, vi conto una dopo l’altra, tutte uguali, tutte viventi nel nulla. Quale uomo ottiene più che l’illusione della felicità? E dopo l’illusione viene il declino», canta il coro nell’Edipo re. Il dolore è in agguato perché gli uomini sono in balia di questa forza cieca. L’imponderabilità del futuro è un fatto dell’esistenza, non imputabile semplicemente all’insufficienza umana. Risalendo a ritroso nella storia della stirpe – degli Atridi, gli antenati di Elettra, come dei Labdacidi, quelli di Edipo – lungo la catena delle generazioni, la colpa sembra perdere la sua connotazione individuale, contingente, allargandosi ad una dimensione originaria, dalla quale la vita umana pare giocata. Essa diventa una macchia connaturata al genere umano, che non vi è quindi modo di estinguere.

Come ha notato Francis Dunn, queste due tragedie, Elettra ed Edipo a Colono, sembrano sottrarsi al canone sancito da Aristotele nella Poetica, che pone nella rappresentazione dell’azione, ovvero nella costruzione della trama, la colonna portante di un’opera tragica: «Principio dunque [...] della tragedia è il racconto, al secondo posto i caratteri (e all’incirca è lo stesso nella pittura: se si buttano giù i più bei colori alla rinfusa non si ottiene lo stesso effetto che se si disegna in bianco e nero un’immagine)». Oggetto di queste tragedie di Sofocle, per contro, è proprio il carattere dei personaggi. Se è lecito parlare di “eroismo tragico” – una definizione che, almeno terminologicamente, trova avvallo in un frammento di Teofrasto – i protagonisti dei drammi superstiti dell’antico tragediografo ateniese sono individui eroici in quanto non sfuggono alla loro sorte, ma la affrontano con la loro unica forza interiore, ignorando i consigli accomodanti provenienti dall’esterno.

Elettra elegge la sofferenza rispetto al compromesso con un potere ottenuto con l’inganno e la violenza; disprezza la sorella Crisotemi che accetta la sottomissione agli assassini del loro padre in cambio delle comodità di una vita agiata. Con i suoi incessanti lamenti, che le costano, per contro, una vita di stenti, può, quantomeno, infastidirli: «Non vivo? Male, lo so, ma a me basta; e intanto affliggo costoro, sì da rendere onore al padre morto». Anche se il suo dolore è – come le ricorda il coro, nel tentativo di distoglierla dalla sua fissazione – inutile, «senza rimedio», perché non potrà riportare in vita Agamennone, Elettra ribadisce che sarebbe ingiusto dimenticare il padre ucciso: «lasciatemi, lasciatemi, mie consolatrici: [...] non vedrò mai la fine delle mie sofferenze». Il dolore diventa la compensazione di un’ingiustizia ancora in attesa di vendetta; l’unica consolazione possibile. Nell’ostinazione di Elettra («non voglio cessare di piangere il mio padre sventurato») trapela il compiacimento della propria capacità di sopportazione del «peso» di un dolore che «mi piega».

Una consapevolezza che si ritrova in Edipo: «Non c’è altro uomo che reggerebbe a portare il peso delle mie pene», dice il protagonista dell’Edipo re. Anche se, come recita l’antica sapienza del Sileno – lo sfondo che sovente riemerge nei versi delle tragedie – la morte sarebbe preferibile alla sofferenza della vita – ad una tale sofferenza – Edipo non si suicida, come Giocasta, ma si acceca. Perduta la vista degli occhi, si acuisce lo sguardo interiore. Se l’“errore tragico” di Edipo, quell’hamartia che Aristotele teorizza come la causa involontaria della rovina dell’eroe della tragedia, è, come spiega Salvatore Natoli, un’insufficiente riflessione su di sé, sulle parole profetiche dell’oracolo, Edipo, l’unico a saper risolvere l’enigma della Sfinge che affliggeva Tebe, ora veramente sa chi è, conosce se stesso, suprema sapienza, come ammonisce l’oracolo. Il destino di Edipo è scritto nel suo nome, che ne contiene l’ambiguità: Edipo è l’uomo dai piedi gonfi, perché, al momento di abbandonarlo, il padre glieli aveva trafitti; ma Edipo è anche colui che sa, che non si sottrae alla conoscenza della verità sulla sua identità, nonostante la premonizione che ciò lo condurrà nel baratro. Il sapere, certo, aumenta il dolore: «Infelice, per la tua disgrazia e per la coscienza che ne hai», lo compiange il coro dell’
Edipo re. Ma solo nella consapevolezza della propria condizione, che pure non modifica il tragitto del destino, è la grandezza dell’uomo.

Nell’Edipo a Colono, l’animo del vecchio Edipo è ormai forgiato dall’abitudine alla sofferenza. Altri mali si sono aggiunti a quelli antichi: i suoi figli maschi, Eteocle e Polinice, lo hanno scacciato da Tebe, costringendolo all’esilio, ad un’esistenza senza patria. Il suo peregrinare, insieme alla figlia Antigone, lo porta, ormai alla fine dei suoi giorni, in un boschetto sacro nei pressi di Atene, a Colono (un’ambientazione che è una celebrazione, in quest’ultima tragedia di Sofocle, messa in scena postuma dal nipote, del suo luogo natale). Qui, nei dintorni del boschetto, Edipo, uomo, diventerà immortale, un eroe: il luogo della sua morte diventerà sacro. Come aveva profetizzato l’oracolo, il suo corpo avrebbe infatti garantito protezione alla città che avesse ospitato la sua tomba. Teseo, il sovrano di Atene, riconosciutolo, lo accoglie e gli dà sepoltura. Ma l’eroizzazione di Edipo non costituisce una compensazione della sua vita di dolore, né una conclusione dell’infelice vicenda della sua stirpe. Prima di morire, egli scaglia le sue maledizioni contro Creonte, fratello di sua madre Giocasta, che, a conoscenza delle parole dell’oracolo, accorre da Tebe per appropriarsi del suo corpo, e contro Polinice, che cerca il suo appoggio nella guerra che si appresta a combattere contro il fratello Eteocle per il trono di Tebe. Edipo si rifiuta di diventare lo strumento dei loro piani di potere: a Creonte augura di vivere una vecchiaia come la sua; ai due figli maschi, che lo hanno condannato all’esilio, predice la morte reciproca per mano fraterna. Il loro destino si compirà, travolgendo anche la loro sorella, Antigone, che sarà condannata a morte per avere disobbedito al divieto di Creonte, il nuovo re di Tebe, dando sepoltura al fratello Polinice. Quando Creonte si accorgerà del proprio errore, sarà troppo tardi: suo figlio Emone, alla vista di Antigone, sua promessa sposa, suicida nella caverna in cui Creonte l’aveva fatta rinchiudere, si affonda una spada nel ventre davanti agli occhi del padre. Il «giogo della necessità», al quale Eschilo cerca di sottrarre l’uomo, per Sofocle sembra rimanere invincibile.

Ultimo aggiornamento: 25/04/2025 01:58