Cultura, Vittorio Veneto

S. Giacomo di Veglia, l'oratorio di Sant'Antonio di Padova e la reliquia del Santo

di Monia Pin

S.GIACOMO DI VEGLIA (TV) - Lungo la Statale Alemagna vi imbatterete in un oratorio ottagonale, sito sulla destra salendo verso Vittorio Veneto e dedicato a Sant’Antonio. Giunti sul portone d’ingresso sopra c’è una nicchia a conchiglia che richiama l’attenzione del visitatore, invitandolo ad entrare in un luogo di silenzio e contemplazione, dove neppure il rumore del traffico riesce ad interrompere quel dialogo serrato di preghiere e ascolto che si instaura tra il fedele ed il Santo. Di fronte si vede la canonica con un’entrata ad arco sulla cui pietra di concio è scolpita l’effige del Santo.

Mi aspetta Lisa Bolzan per spiegarmi con dovizia di particolari la storia di un luogo che conserva al suo interno un’importante sorpresa che rivelerò in seguito.

Tornando all’oratorio, esso fu costruito alla fine del XVII° secolo come si può vedere dalla lapide che sovrasta internamente la porta d’ingresso. L’edificio risale esattamente al 1693 dove prima sorgeva un altro edificio religioso risalente presumibilmente al 1500, “un piccolo altariol de tole” dove i pellegrini che provenivano dalla Germania ed erano diretti a Roma potevano fermarsi (1). Ricordiamo inoltre che questa strada aveva anche una rilevante importanza commerciale essendo la tratta dove passava l’antica via del sale.

La forma particolare della costruzione riprende l’ottagono, aspetto non inusuale per le chiese dedicate a Sant’Antonio. All’epoca c’era un forte legame con la simbologia, attraverso i simboli i fedeli “leggevano” per immagine ciò che non potevano leggere, concetti e precetti religiosi, assimilando così attraverso forme e colori usati sapientemente la potenza della Parola di Dio, comprendendone la forza del Suo Amore. Sopra il tetto del presbiterio spicca con raffinatezza il campanile, composto da una cella rettangolare sormontato da una graziosa cupoletta. Il campanile ha una struttura alquanto singolare, esso infatti poggia su un basamento posto su archi a tutto sesto che lo sollevano essendo il terreno retrostante più basso dell’area della chiesa.

L’oratorio assomiglia molto ad una cappella gentilizia, anche se non ci sono testimonianze a confermarlo. Sta di fatto che questa chiesa risulta essere legata alla famiglia dei Bertoia, tanto che uno dei suoi esponenti, Bortolomeo, agirà come fiduciario della chiesa rivestendo anche l’incarico di Presidente della Fabbrica della chiesa di Sant’Antonio.
A conferma di questo legame tra la famiglia Bertoia e l’edificio religioso, ai lati dell’altare, ci sono due tele entrambe commissionate e donate dalla stessa famiglia. I Bertoia avevano due simboli, uno era “utilizzato” a Ceneda e l’altro a Serravalle e così gli stessi emblemi appaiono sui due dipinti. A destra viene raffigurato Sant’Antonio con la Vergine Maria che tiene in braccio il Bambino mentre guardano con occhi amorevoli la famiglia di Bernardin Bertoia al completo, genitori e figli, posti, tutti posti sotto la tutela delle figure sacre che li sovrastano con sguardi amorevoli. A sinistra invece è stato rappresentato uno dei miracoli di Sant’Antonio che riattacca il piede ad un giovane, episodio noto nella sua agiografia.

Gli altri ex voto sono quasi tutti di autori anonimi e sono tutti numerati. I più antichi risalgono alla fine del 1600 e si trovano ai lati dell’altare, mentre gli altri sono di epoche successive fino al 1956 e ricordano grazie ricevute, affidamenti al Santo per la richiesta di intercessione, preghiere per vedere risolti problemi che affliggevano i fedeli. Si sa solamente che le ultime opere furono eseguite dal pittore Vittorio Casagrande, la cui abitazione è visibile uscendo dalla chiesa, aldilà della strada Alemagna, sulla destra. Uno di questi piccoli quadri raffigura un evento che lo colpì direttamente, la malattia del figlio. Egli dipinse infatti il piccolo disteso a letto e la moglie stesa sul letto accanto al figlio sofferente Bruno, supplicante per la guarigione che poi avvenne.

E’ interessante notare in queste piccole opere che scorrono lungo tutto il perimetro dell’oratorio i paesaggi di sfondo e le diverse ambientazioni che ci accompagnano in un viaggio nel tempo che abbraccia due secoli e mezzo di storia locale. Un altro episodio interessante riguarda il miracolo che vide protagonista Gelindo Cesca che fu investito negli anni ’50 e che divenne poi, per un curioso caso del destino, il fondatore di una scuola guida presso cui molti abitanti del luogo ottennero la patente di guida. Oppure l’evento tragico che vide la piccola Antonella Pollini cadere nel Meschio nel 1956, fortunatamente salvata dall’annegamento che asserendo, nel suo linguaggio di bambina, di aver visto accanto a lei “un tato” (un bimbo) che le era rimasto accanto.

Gli occhi raggiungono poi la magnificenza dello spazio absidale sormontato da una cupola emisferica, impreziosita quasi dalla luce che entra da finestre a semicerchio. L’altare settecentesco è in marmo policromo che sembra chiudere lo spazio dietro cui si aprono le porte della sacrestia, richiamando quasi allo stile delle chiese ortodosse. La policromia pare un intarsio di elementi geometrici, intarsi marmorei che creano un gioco di tinte così raffinato da esaltare la bellezza delle statue che appaiono solenni nelle nicchie sovrastanti. Nella nicchia al centro delimitata da due belle colonne corinzie è stata posta la statua di Sant’Antonio, risalente agli inizi del ‘900 in legno scolpito e dipinto. Lo stile fa presumere che sia stata realizzata in Val Gardena dove esistevano già valenti artigiani con i propri laboratori fin dal XVII secolo. Guardando il Santo, si notano due particolari, la bocca quasi aperta che fa quasi pensare che ci stia parlando essendo egli stato un abile oratore, e l’impressione che stia camminando, altro aspetto che ne caratterizzò la vita. I piedi sembrano non toccare il terreno, impressione resa più realistica dalla presenza di due angioletti che paiono quasi sollevarlo, accompagnandolo nel suo itinerario. Il Giglio ed il Bambin Gesù completano la rappresentazione classica, esaltata dallo sfondo dorato che esalta la Gloria del Santo.


A sinistra quella di San Francesco, in pietra scolpita, opera del 1745 di Antonio Minotto, mentre a destra un altro Santo trova il suo posto all’interno del terzo arco, San Giovanni Nepomuceno. Quest’ultima figura sacra, poco conosciuta, è un santo di origine boema, canonico della cattedrale di Praga che per una disputa con il potere temporale del re, fu fatto annegare nel fiume Moldava. Sembra che il motivo della discussione fosse da ascriversi alla confessione che la moglie del Re fece al Santo il quale si rifiutò ovviamente, nonostante l’insistenza, di rivelarne il contenuto al marito e per questo fu martirizzato. Viene invocato nei casi di pericolo legati all’annegamento o per le alluvioni. Piccola curiosità, proprio dietro l’oratorio scorre il fiume Meschio.

Al lato sinistro dell’altare è stato posto un bel crocefisso che riesce ad addolcire il cuore non appena si osserva la testa china di Cristo ed in quel brivido di silenzio fiorisce la certezza della Resurrezione. I piedi sono posti uno sopra l’altro, seguendo la postura iconografica in voga dal XV secolo. Da notare i bellissimi fregi dorati che ancora delineano le estremità della croce lobata, un tocco nobile che si mescola o forse esalta la Passione di Cristo nell’attimo in cui pronuncia le sue ultime parole, donandoci la salvezza.
Al lato destro un antico inginocchiatoio difficilmente databile sembra quasi ricordare l’austero stile francescano che nella sua semplicità manifesta una inusuale eleganza.

Il fascino di questo oratorio non finisce senza aver ammirato la cupola che sembra quasi richiamare ad un giardino ideale dove il centro è rappresentato da un fiore (sembra una rosa), quasi una meta da raggiungere con l’anima dopo aver lasciato scorrere lo sguardo sulle fini costolature che convergono al centro. Le pareti vedono l’alternanza di lesene più scure fatte in “piera dolza” e quindi di probabile provenienza dalle Grotte del Caglieron.

Il numero otto si ripete molte volte qui, come un mantra che sembra guidarci in un viaggio spirituale dove bellezza e serenità si armonizzano all’eleganza delle forme e al linguaggio silenzioso dei simboli. L’otto è l’ottavo giorno dopo i sei della Creazione e il sabato, richiama all’eternità unendo con un sottile filo di infinito la Resurrezione di Cristo a quella dell’uomo. Otto sono le Beatitudini ed il richiamo al Nuovo e l’ottagono celebra l’incontro tra il quadrato e il cerchio, il primo espressione della Terra ed il secondo del Cielo che al culmine del loro incontro accolgono la Croce, emblema divino della Passione di Cristo. Tutto quindi è riassunto in questo numero sacro, l’otto, tanto che dall’epoca dei primi cristiani in poi i battisteri e le vasche battesimale assumono questa forma. L’acqua del Battesimo assume così il suo potere salvifico e assicura la vita eterna. Altra particolarità, sopra la porta d’ingresso c’è una vetrata policroma che al centro vede protagonista un giglio azzurro, simbolo della Vergine Maria, richiamando a quella rosa al centro della cupola che rappresenta sempre la sua dolcezza misericordiosa.

Ho riservato alla fine dell’articolo la parte più significativa di questa mia visita, aldilà delle bellezze artistiche e architettoniche e delle storie che si sono succedute intorno e dentro questo oratorio si palesa una presenza sorprendente che mi permette di incontrare spiritualmente e visivamente Sant’Antonio di Padova. Dalla teca posta sull’altare Lisa estrae un reliquario che contiene una piccola reliquia “ex cute” del Santo, donata alla chiesa grazie alla volontà di P. Danilo Salezze, frate francescano che ha voluto essere grato per la sua vocazione, facendo di questo luogo d culto un punto di riferimento ancora più mistico e rilevante per la fede e la tradizione del posto. L’arrivo della reliquia ha visto un programma denso di celebrazioni durato tre giorni, passando prima presso il convento delle monache Cistercensi di San Giacomo di Veglia per essere poi traslate nel santuario dove si è svolta la Santa Messa e un momento di preghiera.

Ma la chiesa è dimora di ben altre reliquie, quelle di San Teodoro Martire, conservate in un’altra teca e ritrovate per caso, durante dei lavori avvenuti l’anno scorso a ridosso della Pasqua. I resti erano avvolti in una pagina di giornale degli anni ’40 , forse per proteggerli da eventuali razzie, e potrebbero (il condizionale è d’obbligo) essere di San Todaro, primo santo patrono di Venezia e quindi risalenti al 400 d.c. Solitamente le reliquie di questi primi martiri venivano poste in alcune chiese per amplificare la loro importanza, forse perché erano punti di passaggio di vie di pellegrinaggio particolarmente rilevanti o per motivi che restano avvolti nelle pieghe di tempi remoti.

Come sempre ogni chiesa, per quanto piccola possa apparire ad uno sguardo un po’ distratto, riserva una mole di informazioni artistiche e storiche che ci fanno ripercorrere in una corsa a perdifiato tra i secoli che dai tempi remoti ci portano a ripensare al nostro presente come al frutto di tante vite intrecciatesi all’ombra di un campanile , tra preghiere che hanno trasformato la speranza in fede e quest’ultima in una forza così prorompente da consentirci di essere gli eredi di questo immenso patrimonio di religione e tradizione.

Lascio l'oratorio di Sant’Antonio di Padova alla Rizzera, sentendo viva la presenza di questa figura mistica che ha saputo oltrepassare confini e oceani, portando ovunque con la tenacia che lo contraddistinse la Parola di Dio e il suo messaggio di salvezza. Ringrazio Lisa per la sua cortesia, per il viaggio temporale compiuto insieme, per avermi permesso di immergermi anima e corpo in un posto dove spazio e tempo sono confuse in una nebulosa di emozioni e appaiono solo le stelle di un sentire intimo e profondo che illumina il sentiero della nostra vita di eterni e fiduciosi pellegrini.

Monia Pin

(1)Citazione al libro “L’oratorio di Sant’Antonio di Padova alla Rizzera in San Giacomo di Veglia” edito da l’Azione


Ultimo aggiornamento: 03/05/2024 12:03